La varianza di genere in infanzia: gli ultimi studi.

La varianza di genere nell’infanzia è l’esperienza che vivono quei bambini e bambine che, spesso sin dalla più tenera età, esprimono dei gusti o manifestano dei comportamenti che vengono considerati socialmente inadatti per il genere assegnato loro alla nascita. Parliamo quindi di bambini, cui è stato assegnato il genere maschile alla nascita, che amano per esempio giocare con le bambole, vestirsi con le gonne, portare i capelli lunghi etc, o bambine, cui è stato assegnato il genere femminile, che amano i vestiti pensati per i maschi, giocare con giochi considerati poco adatti alle bambine e che preferiscono attività considerate maschili.

È un’esperienza che può durare solo un certo periodo della vita di una piccola persona e che può essere interpretata come una fase di esplorazione in cui il soggetto esprime liberamente il proprio desiderio di giocare, vestirsi ed essere riconosciut* secondo un determinato genere. Per altre bambine o bambini si tratta invece di un’esperienza più intensa, che riguarda il processo di identificazione e può essere tanto netta e definita  proprio quanto quella di bambin* cisgender, il cui genere corrisponde al sesso biologico (Olson et al., 2015)

In Italia, i genitori che scelgono di mettersi in contatto con un centro per ricevere aiuto e informazioni sulla varianza di genere vengono rigorosamente informati del fatto che molto probabilmente i comportamenti di genere non conformi de* loro figl* non persisteranno nel tempo, ma sfumeranno fino a scomparire del tutto con l’arrivo della pubertà. Per rafforzare questa idea, si fa sempre riferimento a una percentuale emersa da alcune ricerche che indicano che l’80% di bambin* che da piccol* si esprimono o si identificano in un genere diverso da quello assegnato alla nascita, una volta cresciut* ‘desisteranno’, ovvero smetteranno di comportarsi in un modo considerato socialmente inopportuno e riprenderanno uno sviluppo’‘normale,” caratterizzato dalla congruenza tra identità di genere e sesso biologico. Solo il 20% di quest* bambin* da grandi saranno quindi delle persone trans.  Questo dato viene spesso comunicato ai genitori con lo scopo di alleviarne l’ansia rispetto alla possibilità che queste piccole persone anche da adulte possano persistere con un’identificazione di genere diversa e poi con la speranza di aiutare i genitori a gestire una situazione sconosciuta, nonché l’attesa e l’ambiguità che questa molte volte suppone. Su questa percentuale si è costruito un modello di sostegno alla varianza di genere, quello della “vigile attesa,” che facendo leva sulla statistica che riguarda la persistenza/desistenza, carica di eccessiva aspettativa il momento della pubertà, rischiando di togliere l’attenzione dei genitori  e dei professionisti (pediatri, psicolog*, etc.) da quelle che sono le reali  esigenze  de* bambin* che potrebbero in questo modo finire col non essere prese in considerazione per molto, troppo tempo. Se è vero che non necessariamente a un comportamento di genere non normativo nell’infanzia seguirà un’esperienza di vita da persone adulte transgender ed è quindi  importante garantire a queste bambine e bambini un libero  spazio di sperimentazione e di gioco, è anche vero che con questo tipo di modello si rischia di ignorare i bisogni di que* bambin* che non hanno bisogno di una sperimentazione lunga anni per capire chi sono e che chiedono con insistenza di essere riconosciut* e vist* nel genere con cui si identificano.

Alcuni genitori in Italia hanno iniziato a mettere in questione questo tipo di approccio, chiedendosi in che misura l’affidamento a questa percentuale possa essere loro di aiuto nell’affrontare l’accompagnamento di un* bambin* gender variant durante tutta la sua infanzia e soprattutto quali possano essere le conseguenze di questo tipo di approccio per il benessere della loro piccola persona nel caso in cui, a dispetto delle numerose rassicurazioni, faccia parte del 20% di quella percentuale e quindi persista ad identificarsi in un genere diverso da quello assegnato alla nascita. Questo tipo di approccio è da molti anni messo in discussione da divers* specialist* della salute, particolarmente nel Nord America e in Spagna, dove si ritiene che  un accompagnamento alla varianza di genere che punti al riconoscimento e all’affermazione dell’identità di genere di bambin* anche dal punto di vista sociale, permetta loro di crescere più serenamente e di sviluppare meno patologie da adulto (Durwood et al., 2017; Ehrensaft, 2017; Hill & Menvielle, 2009; Malpas, 2011).

Recentemente non solo il modello della vigile attesa ma anche la stessa percentuale su cui si fonda, quella della persistenza/desistenza, è stata discussa da alcun* studios* che ne hanno individuato una serie di criticità e di errori, descritti  poi nell’articolo intitolato ‘‘Un commento critico sugli studi di follow up e teorie della desistenza su bambini transgender e di genere non conforme’’, pubblicato nel 2018 sull’International Journal of Transgendersim.

Le autrici e gli autori di questo studio hanno recentemente ricevuto il premio  dalla Gender Identity Research and Education Society che  riconosce loro  il merito di aver richiamato l’attenzione su gravi e sistematici difetti metodologici, teorici, etici ed interpretativi rispetto agli studi precedenti, i quali al contrario sostenevano la “desistenza” di un’ampia percentuale di giovani gender variant. L’articolo è un commento critico sui limiti di queste ricerche e un’avvertenza contro l’uso di questi studi con il fine di sviluppare raccomandazioni di cura per l’infanzia di genere non conforme. Qui di seguito abbiamo riassunto i punti più importanti dello studio, cercando di preservarne, oltre il contenuto, anche  l’accuratezza. Per chi volesse leggere l’articolo originale, può fare riferimento a questo link: (https://www.gires.org.uk/wp-content/uploads/2020/05/International-Journal-of-Transgenderism-19_2_212-224.pdf).

Commento critico sugli studi di follow-up e
teorie di desistenza su bambin* transgender e
di genere non conforme

Julia Temple Newhook, Jake Pyne, Kelley Winters, Stephen Feder, Cindy
Holmes, Jemma Tosh, Mari-Lynne Sinnott, Ally Jamieson, Sarah Pickett

ABSTRACT

Premessa: È stato ampiamente suggerito che oltre l’80% dell’infanzia transgender verrà identificata come cisgender (cioè desisterà) man mano che crescerà, con l’ipotesi che per questo 80% l’identità transgender abbia rappresentato una “fase” transitoria. Questa statistica viene utilizzata come giustificazione scientifica per scoraggiare la transizione sociale de* bambin* in età prepuberale. Questo articolo è un commento critico sui limiti di queste ricerche e una avvertenza contro l’uso di questi studi per sviluppare raccomandazioni di cura per l’infanzia di genere non conforme.

 Metodo: Viene impiegata una metodologia di revisione critica per interpretare in modo sistematico quattro studi citati di frequente che hanno tentato di documentare lo sviluppo dell’identità per minor* di genere non conforme (spesso definita come ricerca sulla desistenza).

Risultati: Vengono presentate problematiche metodologiche, teoriche, etiche e interpretative relative a quattro studi sulla “desistenza”. Gli autori chiariscono i contesti storici e clinici all’interno dei quali questi studi sono stati condotti per decostruire le ipotesi di interpretazione dei risultati. Nella discussione si fa una distinzione tra le prove specifiche fornite da questi studi e le ipotesi che hanno dato forma alle raccomandazioni per la presa in carico. Si propone il modello affermativo come un modo per allontanarsi dalla domanda “Come si svilupperà nel tempo l’identità di genere de* bambin*?” verso una domanda più utile: “In che modo dovrebbero essere accompagnati al meglio i/le/* bambin* man mano che la loro identità di genere si sviluppa?

 Conclusione: L’ancoraggio della diversità di genere nell’infanzia al quadro della “desistenza” o della “persistenza” ha soffocato i progressi nella comprensione dell’identità di  genere nell’infanzia in tutta la sua complessità. Questi studi di follow-up non permettono di capire di cosa hanno bisogno i/le/*. Mentre inizia il lavoro sull’ottava versione degli Standards of Care della World Professional Association for Transgender Health, chiediamo un quadro concettuale più inclusivo che prenda sul serio la voce de* bambin*. L’ascolto delle esperienze de* minori consentirà una comprensione più completa delle esigenze de* bambin* di genere non conforme e fornirà una guida alle comunità scientifiche e ai non addetti ai lavori.

Ci concentriamo qui sui quattro studi di follow-up più recenti, pubblicati dal 2008: Drummond et al., 2008; Steensma et al., 2011, 2013; Wallien & Cohen-Kettenis, 2008.

 Questi studi hanno indubbiamente il merito di aver fornito dati qualitativi importanti sull’esperienza de* adolescenti gender variant nelle cliniche e di aver riconosciuto come una forte identificazione nell’infanzia può risultare utile per anticipare un’identità trans nell’adolescenza e nell’età adulta. Ma, a parte il valore predittivo, gli attuali approcci alla varianza di genere raccomandano agli operatori sanitari di dare priorità alle identità dichiarate, alle percezioni e ai bisogni de* giovan* nel momento presente, invece di tentare di stimare la probabilità di identità e bisogni futuri.

 Problemi metodologici

 Abbiamo identificato i seguenti problemi metodologici in questi quattro studi: 

  1. la potenziale erronea classificazione de* ragazz* partecipanti alla ricerca;
  2. la mancanza di riconoscimento del contesto sociale per i/le partecipanti alla ricerca;
  3. l’età de* partecipanti durante il follow-up, e
  4. la potenziale errata classificazione de* partecipanti adolescenti e giovani adult* che hanno cessato di partecipare al follow-up.
  1. La disforia di genere non è stata definita come categoria diagnostica fino al rilascio del DSM-5 nel 2013 e, pertanto, a nessun soggetto, in nessuno di questi studi,è stata formalmente diagnosticata una disforia di genere durante l’infanzia o al momento del follow-up. A causa della modifica nel tempo delle categorie diagnostiche e dei criteri di inclusione, questi studi hanno incluso bambin* che, secondo gli attuali standard DSM-5, non sarebbero stat* probabilmente classificat* come transgender e quindi non sorprende che non si siano identificat* come transgender al momento del follow-up. I criteri attuali richiedono l’identificazione con un genere diverso da quello assegnato alla nascita, elemento che non era un requisito nelle versioni precedenti della diagnosi. La  categoria anteriore a quella attuale, Disturbo dell’Identità di Genere nell’Infanzia, comprendeva un’ampia gamma di atteggiamenti di genere non conformi che i/le/* bambin* avrebbero potuto esibire per una serie di motivi, e non necessariamente perché si identificavano come appartenent* ad un altro genere. Spesso si dimentica che il 40% de* ragazz* partecipanti non soddisfaceva nemmeno i criteri diagnostici del DSM-IV allora in vigore. Non distinguendo tra soggetti di genere non conforme e soggetti transgender, ne emerge un rischio significativo di inflazione quando si riporta che un’ampia percentuale di ragazz* “transgender” ha desistito.
  1. Il secondo problema richiama l’attenzione sulla portata dei quattro studi discussi. I risultati nelle ricerche cliniche sono sempre legate al luogo e al tempo in cui si sono svolte. Fare delle generalizzazioni sull’identità di genere è particolarmente problematico se si considera che il concetto di genere è fortemente influenzato dal contesto storico e sociale. Il significato di conformità e non conformità di genere varia molto. Questa ricerca è inoltre limitata a bambin* che sono stati accompagnati dai genitori in una clinica per ricevere una diagnosi e un trattamento, dato che consideravano la differenza de* ragazz* come un problema che richiedesse un trattamento psicologico. Probabilmente, i/le/* minori che sono stati supportati in modo affermativo dai genitori non sono stat* inclus* in questi studi. Questo è significativo perché lavori più recenti hanno dimostrato che i/le/* bambin* cresciut* da genitori che affermano la loro identità di genere sono in grado di intraprendere un percorso di vita diverso (e per certi aspetti più sano) rispetto a* bambin* con genitori riluttanti o non disposti ad affermare la loro non conformità di genere.
  1. Il terzo problema metodologico riguarda l’età in cui è stato effettuato il follow-up. In questi quattro studi, l’età media al follow-up variava dai 16,04 ai 23,2 anni, comprendendo adolescenti di 14 anni. Va considerato che questo rappresenta un lasso di tempo molto precoce per il follow-up nella vita di un individuo e che una persona trans può affermare o riaffermare la propria identità in qualsiasi momento della sua vita. Si è ipotizzato che i/le/* giovani a cui non è stato diagnosticato il DIG nella tarda adolescenza e/o che non perseguono la transizione medica da un’età relativamente precoce, possano quindi essere “correttamente” categorizzati come cisgender per tutta la vita. In realtà, la ricerca ha scoperto che molti individui identificati come persone trans fanno coming out o la transizione più tardi nell’età adulta.
  1. Una difficoltà significativa per qualsiasi studio longitudinale è che un certo numero de* partecipanti originali non saranno più reperibili o, pur essendo reperibili, non forniranno il consenso alla ricerca, e quindi non potranno essere inclus* per il follow-up (rinuncia). Elevati livelli di rinuncia limitano la possibilità di generalizzare i risultati della ricerca longitudinale. La desistenza in questi studi è stata valutata in base al fatto che i/le/* partecipanti abbiano o meno ripreso l’impegno con una clinica specifica entro un determinato periodo di tempo. Questa scelta metodologica trascura una serie di importanti considerazioni:

(a) il fatto che non tutte le persone transgender desiderano una transizione medica, ma si identificano comunque come persone trans;

(b) i fattori socio-economici o culturali che possono influenzare il fatto che un* adolescente cerchi un trattamento psicologico o medico;

(c) la possibilità di una percezione negativa dell’esperienza clinica iniziale, che potrebbe scoraggiare il ritorno di un* giovane;

(d) la possibilità che un* giovane si trasferisca in un altro paese, che sia ricoverat* in una struttura di salute mentale o anche la possibilità di morte (anche per suicidio), nessuna delle quali nega un’identità trans; e,

(e) la possibilità che alcun* giovani possano reprimere la loro identità di genere per un periodo di tempo, a causa della transfobia sociale, il rifiuto della famiglia, la sicurezza, il lavoro e la sicurezza dell’alloggio, o la pressione di terapie volte a scoraggiare l’identità trans

Problemi teorici

Abbiamo identificato i seguenti problemi teorici nei quattro studi:

  1. presupposti inerenti alla terminologia ” desistenza”.
  2. schema binario di genere, e
  3. la presunzione della stabilità di genere come esito positivo.
  1. La parola desistenza… è radicata nel campo della criminologia, dove la desistenza è definita come “la cessazione di comportamenti criminosi o altri comportamenti antisociali”. L’uso del termine desistere in tutti e quattro gli studi posiziona cisgender e transgender come categorie distinte immutabili. In questo quadro, l’identità cisgender tende ad essere vista come il sano opposto di una problematica identità transgender.
  1. Un secondo problema teorico è che la terminologia di “desistenza” si basa su una comprensione binaria del genere. Tutti e quattro gli studi hanno usato il linguaggio binario per riferirsi a* bambin* come “maschi e femmine”, dando priorità al sesso che gli è stato assegnato alla nascita, in contrapposizione alla loro identità. Inoltre, questo linguaggio rende invisibili le identità non binarie e intersessuali.
  2. Un terzo problema teorico è il presupposto implicito in questi studi che la “stabilità” dell’identità di genere sia un esito positivo per la salute che dovrebbe essere considerato prioritario per tutt* i/le/* bambin*. Una cornice teorica basata sul principio di desistenza rafforza una concezione statica del genere che ci impedisce di comprendere l’esperienza di un* bambin* la cui identità di genere è più fluida, o mutevole nel tempo. Mentre l’attuale interpretazione delle traiettorie di sviluppo del genere sostiene che la maggior parte de* bambin* è consapevole della propria identità di genere all’età di 4 anni, ciò non significa che i/le/* bambin* per i/le/* quali l’identità di genere è più fluida o più lenta a svilupparsi non seguano anch’essi una sana traiettoria di sviluppo. Per alcuni individui la caratteristica più consistente del loro genere è che è fluido o in continua evoluzione. Un quadro teorico alternativo consentirebbe di concettualizzare i cambiamenti e gli sviluppi nell’identità di genere non come errori nello sviluppo di un “vero” genere, ma come necessari percorsi di esplorazione lungo un percorso di scoperta di sé che potrebbe durare tutta la vita. È probabile che le identità future de* bambin* di oggi non possano essere conosciute con certezza, dato che il linguaggio per descrivere o riconoscere queste identità potrebbe non esistere ancora. Non vi sono prove che l’attenzione ottimale di un* bambin* nel presente richieda la conoscenza della sua futura identità di genere in età adulta. Un progetto di ricerca longitudinale che registra l’identità a due intervalli relativamente precoci non è quindi probabilmente lo strumento più appropriato per comprendere le esigenze di salute de* bambin* o de* adult*.

 Problemi di carattere etico

 In questi quattro studi abbiamo anche identificato problemi di carattere etico:

  1. trattamento e analisi intensivi de* bambin* partecipanti,
  2. obiettivi discutibili del trattamento, e
  3. mancanza di considerazione dell’autonomia de* bambin*.
  1. I/le/* bambin* sono stat* sottopost* a un livello sostanziale di esame per mesi o anni. I/le/* bambin* san* potrebbero aver visto danneggiata la loro autostima e aver perso la loro fiducia nella terapia dopo essere stati portati a una diagnosi stigmatizzante in delle strutture terapeutiche.
  1. Una seconda preoccupazione etica è che molt* de* bambin* degli studi di Toronto sono stat* iscritt* a un programma di trattamento che cercava di “abbassare le probabilità” di diventare transgender. Zucker et al. (2012) hanno scritto: “…nella nostra clinica, si raccomanda il trattamento per ridurre la probabilità di persistenza del DIG”. Drescher e Pola (2014) fanno un’indagine etica su questo approccio: “Dal momento che nessun medico può prevedere con precisione la futura identità di genere di qualsiasi bambin* in particolare, non dovremmo considerare che gli sforzi per scoraggiare il gioco e le identificazioni tra i generi possano risultare dolorosi e forse persino traumatici, dal momento che, per alcun* bambin*, la disforia di genere persisterà fino all’adolescenza e all’età adulta? Mentre la clinica olandese non ha scoraggiato i/le/* bambin* dall’esplorare la loro l’espressione di genere, l* ha scoraggiato, invece, dalla transizione sociale prima della pubertà. È importante riconoscere che scoraggiare la transizione sociale è di per sé un intervento.
  1. Una mancanza di considerazione dell’autonomia de* bambin* è la terza problematica etica che si evidenzia in questi studi. Questa considerazione dei desideri de* bambin* dovrebbe estendersi anche al loro diritto di rifiutare la partecipazione alla ricerca. Nei quattro studi, mancano informazioni sull’eventualità che la partecipazione alla ricerca sia stata facoltativa e se siano state prese misure per garantire che i/le/* bambin* avrebbero potuto rifiutare di aderire alla ricerca, pur continuando a ricevere i servizi necessari.

Problemi interpretativi

Nutriamo anche dubbi sull’interpretazione degli autori e autrici in questi quattro studi, in particolare a riguardo di:

  1. il presupposto che esigenze future sconosciute dell’adulto dovrebbero prevalere sulle esigenze conosciute dell’infanzia, e
  2. la sottovalutazione del danno causato dal tentativo di ritardare o rinviare la transizione.
  1. Ciò che è necessario nell’infanzia può essere diverso da ciò che è necessario nell’adolescenza o nell’età adulta, ma questo non dovrebbe essere una ragione per negare i bisogni dell’infanzia. Ciò che è problematico è il presupposto che un potenziale cambiamento futuro nell’identità di genere di un* bambin* sia una giustificazione sufficiente per sopprimere o riorientare l’affermazione della sua identità nell’infanzia. La sottovalutazione del danno derivante dalla soppressione o dal riorientamento dell’espressione di genere de* bambin* è la più grave preoccupazione che suscita l’interpretazione della letteratura sulla desistenza.
  1. Secondo la nostra esperienza, non accettare le affermazioni de* bambin* sulla loro identità di genere è tutt’altro che un’opzione “neutrale”. Molti medici interpretano ancora la ricerca sulla desistenza come un supporto per ritardare la transizione. Drescher and Pula (2014) così come Ehrensaft et al. (2018) fanno notare che a volte sembra che ci sia una volontà nell’esporre i bambin* transgender allo stress di vivere in un genere con il quale non si identificano con l’obiettivo di proteggere i bambini cisgender dalla possibilità di fare la transizione ‘per sbaglio’. Noi sosteniamo invece che la qualità della vita de* bambin* transgender non è meno importante e valida di quella de* bambin* cisgender.

 Conclusioni

 Abbiamo identificato un totale di 12 problemi metodologici, teorici, etici e interpretativi, oltre a due aspetti spesso sottovalutati di questa letteratura.

Concludiamo che, mentre la nostra comprensione della diversità di genere ne* adult* è progredita, il legame dell’identità di genere nell’infanzia con l’idea di “desistenza” ha soffocato simili progressi nella nostra comprensione della diversità di genere de* bambin*. Mentre progrediamo verso una comprensione più completa del genere de* bambin* in tutta la sua complessità, sarà importante andare oltre gli studi longitudinali di identità che cercano di prevedere il futuro de* bambin* e danno invece priorità al rispetto dell’autonomia de* bambin* nel presente. Per quante risorse possiamo dedicare allo studio di quest* bambin*, abbiamo molto di più da imparare semplicemente ascoltandol*.

 

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