Paradigma della neurodiversità

Siamo tuttə neurodiversə!

Siamo tuttə neurodiversə!
Il concetto di neurodiversità è stato introdotto verso la fine degli anni ‘90 dalla ricercatrice autistica Judy Singer1 , anche per rispondere alla mancanza di termini adatti per descrivere un’ampia gamma di esperienze umane. Così, proprio come l’idea di biodiversità indica la varietà di specie viventi che popolano il mondo naturale, la neurodiversità descrive la varietà neurologica presente all’interno della specie umana.  Secondo il paradigma della neurodiversità non esiste un modo “normale” o “preferibile” di essere o di pensare ma una molteplicità di funzionamenti differenti, alcuni dei quali sono più frequenti di altri.

Neurotipicità e neurodivergenza. Di cosa parliamo?

Con il termine neurotipico si intende lo stile di funzionamento più conosciuto e per questo i bisogni espressi da una persona neurotipica appaiono spesso più comprensibili perchè confermano ciò che ci si aspetta nel modo di pensare, comunicare, relazionarsi ed elaborare gli stimoli sensoriali. Al contrario, chi ha un funzionamento che diverge dalla norma neurotipica è detto neurodivergente, espressione che è usata come termine ombrello per descrivere tutte quelle esperienze che si discostano dall’aspettativa neurotipica. Persone autistiche, ADHD e dislessiche hanno bisogni e strategie differenti ma, allo stesso tempo, sono accomunate dal fatto di avere uno stile di funzionamento diverso da quello tipico.

Il ruolo della società

Così come per la varianza di genere, la neurodivergenza porta a vivere un’esperienza che si discosta dalle aspettative di come si dovrebbe essere per la società2. In entrambi i casi non sono le persone che dovrebbero adeguarsi a queste aspettative, ma la società che dovrebbe riconoscere, accogliere e apprezzare la diversità.
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